Bulgaria

Ci fermiamo a Veliko Tarnovo: le rovine della città medievale sono estesissime, le mura lunghissime, alla faccia delle storielle progressiste sui “secoli bui”.
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Raggiungiamo quindi il Budludza: costruzione dalla forma avvenieristica posta sulla cima di un monte e nella quale, negli anni della guerra fredda, l’intellighenzia comunista bulgara e non si radunava per discutere, progettare e pianificare la lotta al capitalismo. Ora non resta che un edificio a rischio crollo, ammantato della solennità che hanno sempre i giganti decaduti.
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L’ideologia si caratterizza anche, nella sua granitica convinzione, per la capacità di guardare solo a lungo termine oltre che per il ruolo centrale che vi rivestono le idee; in questa chiave diventano comprensibili investimenti monumentali di questo genere, anche per chi è parte di una cultura a breve termine, accecata dall’utilitarismo, che costruisce grandi edifici solo per banche o aziende.
Dopo aver campeggiato ai piedi del Budludza, partiamo verso Sofia passando per Plovdiv. Dormiremo 3 notti da Vasco, ragazzo della periferia di Sofia che vive (e fumamore) con Elena, sua mamma ed il piccolo, ma agitassimo, cagnolino Ziva. Vasco ci porta a cena vicino casa, è tutto abbondante e saporito, mangiamo anche i cuori di pollo-sentite scuse ai vegani.
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Durante il primo viaggio in metro una donna si siede proprio davanti alla Ribba e non smette di fissarlo. Lui prima ricambia, poi si gira, e lei è ancora lì, allora ricambia più a lungo, ma lei resiste nel fissarlo. La cosa si fa imbarazzante, lui si stringe nella felpa, lei sorride, lui piega la testa, lei ammicca. Altre due fermate e scattava la prima denuncia per stupro ai danni di un uomo.
Nel pomeriggio Camera decide simpaticamente di acquistare, davanti ad una chiesa russa, un cappello originale di quei gran burloni delle SS e la sera stessa accettiamo l’invito di Vasco di andare con lui al compleanno di un suo amico. Arriviamo in un grande palazzone e saliamo le scale fino all’ultimo piano: si apre un sottotetto disadorno dove alcuni ragazzi ci aspettano con snack e alcolici. Sul tetto, disegnata col pennarello su di un cartone usato come isolante, svetta una bella svastica nera. Cazzo, dovevo portare il cappello!. Scopriamo così di essere nella soffitta di questo ragazzetto gentilissimo ricoperto di tatuaggi nazi che ci coinvolge parlando inglese e offrendoci da bere. Inoltre, tra i simpatici hobbies che coltiva, c’è anche quello dell’essere un ultras della locale squadra di calcio, e ci parla con ammirazione degli ultras laziali che “quando sono stato in curva con loro ci trattavano come principianti”.
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Il nazismo, nel nostro perbenista villaggio globale, è semplicemente un tabù: c’è da chiedersi chi sia peggio informato, se lui, rimasto emarginato e rifugiatosi nella sorpassata e criminalizzata ideologia, o noi, convinti a priori di esserne superiori.
Ah, per “bagno” qui si intende “scegli una porta nel pianerottolo e pisciaci contro”. Passiamo la notte lì, dopo aver usato la vodka anche per lavarci i denti, dopo che la ribba s’è sgranchito la lingua con una Bulgara e dopo aver svegliato tutto il palazzo (Teo e la Ribba, per ritrovarsi al buio da 3 metri di distanza).
A Sofia visitiamo per la prima volta nel viaggio una moschea e qui è necessario coprire le scattanti gambette di Teo con un accappatoio verde gentilmente offerto all’ingresso. Gli altri lo dicevano da giorni che quei braghini erano troppo corti. Dentro la moschea regna soltanto il silenzio, materialmente non c’è nulla di particolare: le uniche cose che contino sono l’orientamento (verso la mecca) ed il senso del tatto (via le scarpe e piedi sul tappeto). Più tardi andiamo a fare un giro sulla vicina montagna proprio dove partono gli impianti sciistici: sono 2000m di quota che dominano la città.
L’ultimo giorno in Bulgaria è dedicato al monastero di Riskij, patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, proprio al centro dell’omonimo parco nazionale. Qui si è conservata l’identità bulgara durante l’occupazione ottomana e da qui è rifiorita per partorire la nazione bulgara.
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Prima di passare il confine con la Macedonia ci fermiamo a mangiare la trota alla piastra, primo ottimo pesce del viaggio.
Macedonia, arriviamo. È una minaccia.
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Skopje

C’è una città un po’ folle, è una città tutta blu. Attraversata da un fiume, nel suo centro resta sdraiato un bel ponte da mille anni o ancora di più. Qui gli abitanti han deciso di costruire persone e metterle ferme su un palo, sono persone enormi, qualcuna a cavallo, qualcuna seduta ma tutte non possono muoversi, soltanto star ferme lassù. Oltre lo stabile ponte, che neanche il fiume può scuotere, alti palazzi seduti guardano l’acqua che corre, sono neonati e già grandi. Loro si specchiano gai di luci dai mille colori: servono assai per la folle città. Apri poi spacca e cementa, rompi poi scava ed innalza: intorno c’è un gran fermento per fare nuovi giganti da porre seduti e splendenti intorno alle immobili statue.
C’è una città dentro un secchio, con le pareti di monti ed il fondo che scorre. Volano insetti a milioni, corrono intorno alle luci della sbocciante città. Alle spalle dei vanitosi palazzi c’è un grande mago di pietra disteso sopra un bel morbido colle che veglia la folle città. Venne da un luogo lontano e da prima dei grandi giganti, venne da prima delle persone immobili e forse da prima ancora degli insetti, venne a far compagnia al ponte. Dopo un chiacchierata di chissà quanto, il mago s’appisolò ed ora solo ogni tanto apre assonnato un gran occhio e controlla le novità.
Sotto al colle del mago, lontano dal rapido fiume, c’è una zona ben stramba, tutta cinta da una tendona rossa. Qui arrivano uomini, gente di tutte le età, e vi si fermano appresso, intorno al minuto laghetto. Togli le scarpe togli i calzini, poggia le scarpe, poggia i calzini, metti i piedi dentro il laghetto e aspetta che passi il pesce assonnato. Lui poi ti lava con carezze di spruzzi: ora puoi togliere i piedi da lì, devi soltanto andar davanti alla tenda, metter la benda ed entrare.
Tenero, soffice come un cuscino, senti milioni di bacetti sui piedi: tutto è tappeto, tutto è ricolmo di tanti altri che son come ciechi. Si può sentire soltanto il morbido strato di fede ch’è sotto di sè, si può avanzare soltanto avanti con gli altri, la direzione è la stessa e pian piano si procede in silenzio.
Salendo più in alto in realtà, si vede la rivalità che sfrega da anni l’intera città. Due cime svettano infatti: l’una più vecchia e sol dritta, bianca e vicino al tendone, l’altra la sfida dalla parete del secchio, con le due braccia un po’ alzate, come incrociate a metà. Quella più antica assai grida, diverse volte ogni dì, mentre la nuova minaccia soltanto restando in silenzio.
Proprio infilata fra i monti, che son di una spazzola i denti, sta la città aggrovigliata, ma se ti spingi un po’ fuori potrai vedere anche tu quando son grandi quei denti che stanno abbracciati laggiù. Son tutti stretti l’un l’altro e piangono ghiaia biancastra. I loro piedi di roccia sono infatti mangiati, morsi e poi sbriciolati, da famelici cani d’acciaio che fan delle lacrime mucchi da portare nella lontana città.
Se vieni a vedere la folle città, non sai che ci trovi, non sai chi ci sta. Meglio salire sui monti, cercare un laghetto o la cima di un passo, fuggire da tutto: persone di pietra e tappeti, lacrime bianche ed insetti. Sali più in alto con me e guarda intorno che c’è, forse vedrai un città, è la più folle che c’è.

Quiz: quanto costa l’erba in macedonia?

Bucarest

Bucarest è la cittá più caotica dei balcani: l’urbanizzazione incontrollata ha reso questo gigante di cemento una distesa di palazzoni attraversati da enormi viali congestionati. Lasciamo quindi l’auto dalla nostra ospite (Alla, sulla quale glisso provvidenzialmente), e usiamo la metro per gli spostamenti quotidiani.
Girando per la città, nonostante i rumeni sembrino meno legati alla religiosità rispetto ai serbi o ai bulgari, per i quali la Chiesa fu centrale nella formazione dello stato e dell’identità nazionale, troviamo diverse bellissime chiese ortodosse.
Le chiese ortodosse sono un’altra cosa rispetto a quelle cattoliche, sia per la forma architettonica che per i contenuti delle chiese stesse. Mentre da noi si tratta per certi versi di “arredare” la casa del Signore con putti dorati, statue e decorazioni varie (ed il barocco è la vetta di questa tendenza), il luogo di culto ortodosso sembra ricoprire maggiormente un ruolo pedagogico. Queste chiese sono infatti interamente ricoperte da dipinti, organizzati secondo uno schema più o meno fisso: un ciclo inferiore, anche se rialzato rispetto al punto di vista degli avventori, che giunge fino a circa l’altezza dei portoni, ed un ciclo superiore che ricopre la parte alta della chiesa fino alle cupole. Il ciclo inferiore va, man mano che si avanza, dalle rappresentazioni degli antichi sovrani fino ai santi, sostanziando sulle pareti il mondo terreno, il riverbero politico coercitivo dell’ordine religioso situato nel ciclo superiore. In quest’ultimo infatti viene in genere rappresentato, prima del portone d’ingresso, un passo dell’antico testamento (soprattutto Adamo ed Eva), mentre l’interno è interamente dedicato alla vita di Cristo, alla madonna, agli apostoli ed a Dio stesso. Biblici libri illustrati, le chiese ortodosse sono tutte icone e cornici. In contesti di analfabetismo diffuso questa organizzazione dello spazio sacro ribadisce il ruolo dirigenziale dell’ordine ecclesiastico sia in quanto fonte della sovranità del potere terreno, che come custode del Verbo (monasteri e chiese erano gli unici luoghi d’istruzione e studio).
Il fondo della chiesa è occupato interamente dall’iconostasi in legno, che chiarifica ancor più schematicamente l’ordine gerarchico del cosmo ortodosso, e davanti ad esso stanno due o tre icone. Queste non sono semplici rappresentazioni, ma vere e proprie mediazioni concrete verso il mondo ultraterreno: non sono figure della santità (come per i nostri santini) ma sono la santità stessa, la sacralità resa visibile. Letta in questa chiave, con l’ennesima sottolineatura della centralità dell’immagine elevata ad icona, divenuta concreta, l’intera organizzazione della chiesa assume ancora maggior potenza.
Così, da secoli, Uomini e donne si avvicendano davanti alle rappresentazioni sacre per pregare in silenzio e baciarle (gli affreschi sono consumati in corrispondenza dei piedi di gesù e della madonna).
Va infine detto che le icone sono molto simili fra loro, perché rispettano rigidi schemi figurativi: hanno subito molti meno cambiamenti stilistici rispetto alle nostre immagini sacre: come sempre, sacralità e conservatorismo si sovrappongono, rivelando la loro natura comune. Più qualcosa è sacro o sacralizzato più è conservato e conservatore, se non perfino reazionario.

Andiamo a pranzo in un ottimo ed economico ristorante del centro, arredato in stile liberty e che serve piatti tipici (appena torniamo a Bologna mega cena balcanica); in Romania mangiamo bene e godiamo della vivacissima vita notturna.
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La seconda serata giriamo diversi locali tra drink a 1,30€, nebbie di fumo, narghilè e un caldo terribile, fino alle 5 di mattina quando la ribba va a scroccare una sigaretta:
-“Sorry, do you have a cigarette?”
-“Are you jewes? Because you are black.” Risate generali, la Ribba controlla di non essersi scurito la notte, ma sembra tutto come sempre e quindi, confuso, si gira verso Camera e lo trova con una tipa spuntata dal nulla che lo abbraccia.
-“Do you want to come out with me and drink something?” Sbiascica lei.
-“Ma la conosci?”
-“No!”
-“We can go out to drink, i have the money. Rgtfbfnd…”
Ok, lasciamo perdere, non si reggeva in piedi da quanta roba aveva assunto (chissà poi cosa).
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L’ultima sera andiamo invece al kultur haus, un locale a tre piani: uno sotterraneo con musica rock e murales, uno superiore con pista da ballo e musica da discoteca, e uno in mezzo, relativamente silenzioso, con divani e tavolini. Una figata.
l’unica osservazione è qui riguardo alla diffusione in Italia di luoghi del genere: ingresso gratuito, ampi spazi, offerta differenziata. Si tratta di puntare sull’avere sempre il locale pieno e guadagnare di conseguenza piuttosto che sul tassare l’ingresso con ridicole tessere associative anche per una sola sera, si tratta di credere nella dimensione e nella qualità dell’offerta piuttosto che rifugiarsi negli incassi fissi degli ingressi, si tratta, in sostanza, di andare nella direzione di spazi più Aperti, e quindi più vitali.

Infine, fulcro della città, abbiamo visitato il palazzo del Parlamento, fatto edificare per volontà di Causescu a partire dal 1984. Le dimensioni di questo gigante sono indescrivibili, basti dire che per superficie è la seconda costruzione del mondo e che noi, in due ore di visita, ne abbiamo visto circa il 5%.
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Si tratta dell’ultimo, recentissimo, monumento alla sovranità assoluta. La sua sola esistenza concretizza il senso di onnipotenza terrena e, accostata ai primi scenari della romania, tra gitani sui carretti e cani randagi, trasmette un terrificante senso di vertigine. Anche ora, come da sempre, il governo del mondo è gestito da un’elite ristretta (#Mosca, Pareto), e l’uguaglianza non è cosa di questo mondo, ma è molto diverso sapere qualcosa e vederlo in marmo e cristallo elevarsi davanti a sé.
Inoltre questo esagerato palazzone esprime peculiarità che ricalcano alcuni tratti del potere del conformismo di massa tipicamente occidentale: si tratta sia della visione egocentrica che dei suoi riverberi paranoici. Il “re sole” Ceausescu era infatti, oltre che un evidente megalomane, ossessionato dall’idea di essere assassinato con il gas. Per questo l’intero palazzo è dotato di un impianto di areazione complicatissimo, che prende l’aria dall’esterno e la fa continuamente circolare tra le stanze.
C’è anche una sala, detta “dell’eco”, nella quale Causescu avrebbe dovuto tenere i discorsi, che produce un’eco molto amplificata, in modo che gli applausi producano più rumore. Riguardo ciò la cosa che inquieta è che nessuno degli alti gerarchi comunisti sia riuscito a fermare l’onnipotenza di un egocentrico chiaramente troppo preso di sé per dirigere un paese. Perché non esiste mai un uomo davvero solo al comando: gli alti sottoposti sono sempre come in una stanza dell’eco, in cui gli applausi si sentono più forti, ma lo stesso vale per i fischi.

Lungo Danubio e Transilvania

Prima di lasciare del tutto Belgrado facciamo un’ultima tappa al mausoleo di Tito. Diciamo che non è esattamente seguito come quello di Lenin nella piazza rossa: nonostante la bella giornata ci siamo praticamente solo noi.
Ripartiamo quindi per seguire il corso del danubio, lungo il quale ci fermiamo in due fortezze di pietra. In particolare la seconda, quella di Golubac, è affascinante, arrampicata sulla montagna in una splendida ansa del fiume. Fino al confine sono tre ore di viaggio con un panorama unico: il Danubio prima si stringe fra ripide scogliere a picco poi si allarga riposando su larghe spiagge; si aprono ampi spazi in cui spuntano paesini sia sulla riva che sulla montagna, mentre la strada costeggia l’acqua fra tunnel e ritagli di cielo.
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Raggiungiamo quindi la frontiera con la Romania, ed alla dogana ci chiedono se abbiamo con noi un fucile (dovremmo averlo?!) e dell’hascisc (dovremmo averla).
Il primo impatto con la Romania è impressionante: la zona a sud ovest sembra lontanissima dalla Serbia che abbiamo appena lasciato. Si tratta in sostanza di una serie di strade nuove e lunghissime ai cui lati stanno file di case davanti alle quali gli anziani giocano a carte o semplicemente siedono all’ombra. Ci sono tantissimi cani randagi che vagano ai margini della carreggiata ed altrettanti dei quali resta solo la carcassa investita. Si moltiplicano i carretti trainati dai cavalli, che trasportano famiglie intere, fieno o addirittura gruppi di pecore.
Per descrivere i villaggi che incontriamo non si può certo usare l’espressione “centri abitati”, perché di centro non c’è traccia: dietro la fila di case affacciate sulla strada sembra ci sia solo la sterminata pianura, mentre davanti compaiono piccoli pozzi ad uso domestico. È un tipo di topografia che ricorda quella dei primi colonizzatori del continente americano: sviluppata lungo un vettore spaziale invece che intorno ad un centro come può essere la piazza; solo che qui non c’è traccia di fermento, al contrario sembra una realtà abbandonata alla propria solitaria staticità. Il contrasto con l’ultima visita che faremo in Romania è semplicemente terribile, ma andiamo con ordine.
Proseguiamo verso nord est fino a raggiungere i dintorni di Hateg, dove il paesaggio diventa di uno splendido verde smeraldo che ricopre alte colline sulle rive di un laghetto. I campeggi che avevamo contattato sono chiusi (la stagione apre il 15 maggio, data che ci tornerà ad infastidire), quindi optiamo per piantare la tenda in uno spiazzo tra gli alberi che ha un vista meravigliosa.
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Il giorno seguente inizia il tour dei castelli della Transilvania; quello di Hunedoara è come ci si immagina un castello in questa zona: lo stile è gotico e soprattutto è spoglio e spartano. Ci sono una sala delle armi, una piccola cappella, un imponente bastione, qualche camera, la prigione, la stanza delle torture ed una serie di torri, il tutto senza fronzoli o eccessi di stampo turistico.
Da qui, sotto il caldo torrido che ci segue dal primo giorno, ripartiamo per la tappa che la Ribba aspettava da tutto il viaggio: una strada transalpina che raggiunge quota 2100 m di quota e scavalca la montagna fino a raggiungere il castello di Vlad l’impalatore, principale ispiratore del “Dracula” di Bram Stoker. Nel giro di un’ora di salita ci ritroviamo in mezzo a neve e nebbia: intorno non si vede nulla, solo ogni tanto sbucano alberghi e pensioni in stile alpi tedesche: d’inverno la montagna è meta di sciatori e turisti. Quando siamo circa a quota 1700 m la strada si interrompe in un muro di neve, un cartello dice che verrà liberata solo il 15 maggio; scendiamo e il freddo è pungente, intorno la neve è alta più di 2 metri e la nebbia è fittissima, dobbiamo quindi fare marcia indietro e rinunciare alla parte migliore della strada.
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Una volta riscesi entriamo nella parte ungherese della transilvania: l’architettura dei paesi e delle città d’ora in poi sarà in perfetto stile germanico, perché i governatori imperiali della regione erano appunto tedeschi, mentre le campagne sono il regno dei pastori: mucche e pecore attraversano le strade o brucano al sole nei verdi campi. Andiamo a cena nella piazza principale di Sibiu, dove mangiamo uno degli abbondanti piatti unici per circa 8 euro, ed andiamo quindi al campeggio, che è gestito da un omone tedesco dalla parlantina facile.

In questa zona paesi e villaggi si strutturano generalmente intorno a chiese fortificate, che offrivano rifugio agli abitanti in caso di pericolo. Ne raggiungiamo una stranamente isolata, situata su di un colle, nella quale la tradizione voleva che, il giorno del matrimonio, le coppie trasportassero insieme un sasso fino alla cima; infatti ne troviamo diversi intorno alla chiesa.
Si riparte quindi per Sighisoara e durante il viaggio ci sono momenti di imbarazzo per Camera il quale, sceso per fare rifornimento di birre ad un minimarket lungo la strada, torna dopo diversi minuti senz’alcol ma con al seguito una ragazza rumena palesemente attratta dai suoi tratti nordici. Se la cava lasciandole una sigaretta per poi ripartire di corsa.
Sighisoara è veramente deliziosa, qui c’è la casa dove Vlad ha vissuto la prima parte della sua vita, in un borgo medievale in perfetto stile germanico. Il museo delle torture è chiuso e riaprirà,
ovviamente, il 15 maggio. Riposiamo su di una panchina e Teo fa amicizia con un ragazzino. In Romania incontriamo solo persone gentilissime e disponibilissime. Almeno fino alla dogana.
Torniamo in viaggio e prendere alcune “scorciatoie” si rivelerá un grave errore, sopratutto per la Ribba, costretto a guidare in strade con più buche che asfalto. Si procede infatti a 30km orari facendo lo slalom tra le fosse; le bestemmie della Ribba non si contano.
Stiamo andando dal prossimo couchsurfer, che ci ospiterà una notte nella sua enorme baita incastonata nel bel mezzo dei Carpazi. Il viaggio regala paesaggi mozzafiato: sembra di essere ai piedi delle Dolomiti, la casa si trova accanto ad un fiumiciattolo con ponticelli di pietra ed a prati dove stanno splendidi cavalli.
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Senza apparenti motivi Camera si sbronza in auto con la rakja e appena arrivato crolla dal sonno; così saranno solo gli altri due a conoscere meglio Andras ed il suo enorme cane Ektor, a sentire le storie sui lupi che gli hanno sbranato qualche cavallo o quelle sulla sua travolgente passione per la natura, che lo ha portato allo splendido isolamento fra i monti (per chi fosse interessato http://www.cabanadianthus.ro).
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Il giorno dopo è dedicato a finire il tour dei castelli, andiamo quindi a quello di Bran. Spacciato come l’originale castello di Dracula, non è altro che una pacchianeria per turisti armati di macchinetta fotografica o, peggio, di iphone. Come rovinare un bel castello arrampicato su una roccia a strapiombo e prostituirlo alla clientela della peggior specie. Meglio non sapere come questi turisti massificati in serie immaginino il Medioevo o, in generale, le epoche a loro precedenti.
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Ci spostiamo quindi verso Brasov per pranzare e il paesaggio è sempre magnifico: montagne innevate spuntano regolarmente sulle nostre teste e strade svettano panoramiche abbracciando i paesi delle valli sottostanti.
Arriviamo quindi al castello di Sinaia alle 16:20, giusto in tempo per scoprire che l’ultima visita era alle 16;15. Si tratta qui più che altro di un palazzo, che non a caso Causescu aveva reso una sorta di suo obersaltzberg: residenza estiva e luogo dove ospitare importanti personalità. È bella sia la struttura del palazzo che il luogo: immerso nella foresta e con la vista sui picchi dei Carpazi; è un peccato non aver visitato gli interni.
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C’è però da rimettersi in sella verso Bucarest, cuore urbano del paese.

Serbia

Arriviamo a Belgrado accolti splendidamente: la ragazza che ci ospiterà 3 notti è nella sua verandina con Uroc, un suo amico che è poi tornato anche le sere successive. Ci hanno preparato un’ottima cena tipica composta da una portata a base di carne e verdure, accompagnata da formaggi di vario genere, insalata e pancetta affumicata dallo stesso Uroc. Dopo cena ci hanno accompagnato in centro, in un localetto sotto il ponte principale dove beviamo Rakja e birra locale.
Il giorno seguente è dedicato al giro della cittá: parco, chiese, lungo danubio, ecc..

Riguardo le chiese c’è da osservare due particolari che manifestano la relativa vitalità dell’ortodossia, quantomeno come scrigno di valori identitari collettivi: la chiesa principale che abbiamo visto è in costruzione, ed è frequentata da giovani raccolti in sentite e silenziose preghiere. Alla faccia del postodernismo, del crollo dei valori e della morte di Dio, l’etá media di chi frequenta i luoghi di culto è qui enormemente più bassa che nella cattolicissima italia. Ovviamente si guarda qui ad un aspetto parziale, che non vuole certamente dipingere la Serbia come un paese integralista, ma le minoranze praticanti ortodosse, come quelle nazionaliste, sembrano esprimere il retroterra serbo fondato su una concezione forte dell’identità, strutturata e coerente, convinta e, si potrebbe dire, guerriera. -nel parco principale,che chiamano fortezza, ci sono una fornitissima esposizione di armi ed il museo militare-

Sono stati conservati due palazzi semi distrutti dai bombardamenti dell’ONU del 1999. Riguardo ciò la cosa che impressiona è che la conseguenza di questa scelta di mantenere la prova concreta del trauma che la città ha subito è innalzare in questo modo un monumento alla distruzione. Siamo al contrario abituati a vedere monumenti commemorativi, in nome delle vittime, che aspirano a provocare commozione per la sofferenza in modo aggregante e collettivo, con spirito di fratellanza. Qui invece, davanti a palazzoni semidistrutti nel cuore di una città viva, tra altre costruzioni in perfetto stato, non resta che una ferita aperta, che acquista concretezza e soliditá. In tal modo i sentimenti che risvegliano, le riflessioni che suscitano, sono completamente diversi dai momumenti classici: richiamano innanzitutto la potenza carnale e “biologica” delle armi, dei bombardamenti, e si collegano così a ciò che di altrettanto potente provocano nell’animo di un popolo. Si tratta pur sempre un una problematica da valutare con la ragione (cause e conseguenza delle bombe e così via), ma un monumento del genere non taglia fuori le emozioni travolgenti, non riduce il ricordo ad una pietá tanto caritatevole quanto passiva, ma spinge a prendere posizione, o perlomeno a ricercare maggiori veritá sulla pagina più cruenta dell’europa degli ultimi 20 anni.
Ci sarebbe, infine, da ragionare sull’efficacia e sull’utilitá per la collettività di mantenere vive emozioni tanto forti, concretizzate in modo così esplicito, in una zona a rischio estremista. Se sia in definitiva giusto porgere il fianco a chi strumentalizza certe ferite per imboccare la strada che ne ha, in fondo, di altrettanto dolorose.

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La sera torniamo a casa e ricambiamo l’ospitalità preparando la pasta fresca: tagliolini funghi e salsiccia (slovena), annaffiati con birra locale in gran quantità.
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Torniamo quindi in centro per fare serata in uno dei locali che ci hanno suggerito; ce ne sono tantissimi, uno accanto all’altro e in pieno centro: dalla tecno alla commerciale, dalla turbo folk ai localetti jazz, l’offerta per la nottata è veramente per tutti i gusti. Finiamo quindi in un locale sul danubio molto costoso per Belgrado, nel quale fino all’una la musica è come in tante altre discoteche in europa, poi sul palco arrivano due cantanti (un uomo e una donna, più il tastierista) che cantano canzoni serbe da discoteca fino alle 4 di mattina.
-In quante altre discoteche centrali in Italia succede qualcosa di simile? Con tutta la sala che conosce le canzoni in lingua e le canticchia ballando? Mille facce dell’identitá, dell'”essere serbi”-
Qui Teo sfodera il suo inglese, usando la Ribba come spalla, per impezzare praticamente tutte le persone del locale. Sarà che in punta di piedi gli arriva all’ascella o che è pieno di enormi serbi rasati, ma esce dal locale più brillo che placato.
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I greci antichi si caratterizzavano per la folta barba, che era simbolo di saggezza, mentre furono i romani a preferire il viso rasato, a parte alcuni imperatori del tardo impero come Marco Aurelio che, appunto, si rifacevano alla cultura ellenica. Da sempre il modo in cui un popolo tende ad acconciarsi esprime molto delle sue radici e dei suoi modelli. In Serbia non abbiamo visto praticamente nessuno con la barba; di uomini coi capelli lunghi, o con i ricci, non se ne parla neanche. Il riferimento culturale sedimentato e “inconscio” degli slavi del nord è infatti alla Roma guerriera, al suo culto del corpo sano, attivo e agente.

Il giorno seguente andiamo in gita a Novi Sad, a meno di un’ora da Belgrado. La cittá ha una bella fortezza e un centro piacevolissimo da girare, ricco di invitanti caffè e pub.
Tra qui e Belgrado le donne sono fantastiche, strutturalmente slanciate e altissime, sempre curate al meglio. La Ribba si sente circondato, altri due giorni e diventa strabico e col torcicollo cronico.
Tornati a Belgrado mangiamo e rientriamo a casa dove, come al solito, ci aspettano Alexandra e Uroc con un sacco di birra e pancetta affumicata. C’è però una novitá: Mia, un loro amico intento a smontare e ricomporre sigarette. Teo e la Ribba, in vista della levataccia del giorno seguente, vanno a riposare. Camera, come previsto, si stordisce finchè c’è amore.

Ci sono infine due osservazioni da fare riguardo la natura identitaria serba, emerse dalle chiacchiere con Uroc, Mia, Alexandra e Vlad (lo sportivo fratello di Alexandra).
In primo luogo c’è la fondata convinzione che il popolo serbo sia caratterizzato da un’enorme solidarietá all’interno di una certa cerchia, che è il risvolto di un disinteresse per le sorti di chi è fuori dalla cerchia stessa. In questo senso sono paragonabili ai nostri abitanti dell’entroterra, dagli appennini alla sardegna: ospitalitá fraterna, nepotismo come dovere, fratellanza di sangue, ma una sorta di chiusura verso l’esterno, nel senso di un’orgogliosa rimarcatura della propria indipendente unicitá. Si tratta di una struttura coerente di valori ed archetipi estremamente affascinante nella sua fiera autonomia, che si lega sia alla morfologia territoriale di stampo pastorale, che alle radici culturali sempre intrecciate tra spirito orientale e modelli occidentali.
In secondo luogo hanno espresso la comune sensazione dei loro coetanei (hanno circa trent’anni ma sembravano parlare a nome di molti di più) di sentirsi periferici. Periferici sia in senso ampio, rispetto alle opportunità che offre l’Europa occidentale (“se abbiamo sentito la crisi? Noi siamo sempre in crisi, e lo saremo per sempre”-risata amara), sia in senso specifico, come abitanti della periferia di Belgrado. E i riferimenti sono stati a tutta la cultura delle grandi periferie urbane d’Europa, ed in particolare ai film di Kassoviz, che esprimono la stessa situazione di avvilente stallo, di isolamento forzato, che si ritrova nei sobborghi di Parigi e di Londra, di Mosca e, appunto, di Belgrado.

Consigli per diventare serbo:

Rasati. Anche le sopracciglia sono considerate pericolosamente simili ai peli superflui.
Se sei uomo, comprati un’audi o una yugo, non si accettano vie di mezzo.
Se sei donna, cresci. Metti i tacchi o trova trucchi di altro genere, e in ogni caso rassegnati: le altre ti mangeranno comunque in testa.
Se sei uomo fuma sigarette all’asfalto, le light sono da donnette. O da sloveni.
Se sei donna truccati anche per dormire, la pelle naturale è da poveri. O da bulgare.
Sii orgoglioso di essere serbo.

Bologna – Ljubliana. Prima tappa.

Prima d’entrare in autostrada ci fermiamo da un trafficante di gopro che richiede un esosa contropartita per il suo prestito; la grolla passerà un mese in buone mani, ne siamo certi.
Il pandino è spazioso contro ogni aspettativa, fino alla prima tappa Camera non pervenuto causa combinazione stanchezza + sigarette divertenti.
Dopo circa 3 ore siamo finalmente fuori dall’italia ed anche se la Slovenia non si può considerare propriamente parte dei balcani comincia la caratteristica abbondanza di consonanti nei cartelli. La prima sosta è al castello di predjama, costruito nella roccia, all’ingresso di una serie di grotte che si spingono fin nel cuore della montagna. Il nostro fotografo pro registra ogni minimo particolare, in hd e a 360gradi.
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Ripartiamo per sostare a pranzo vicino al castello, in un locale pieno di sloveni che bevono birra. Non è ancora economico come ci aspettavamo ma i salumi locali si distinguono giá piacevolmente dai soliti sapori italiani.
Arriviamo a Lubiana e andiamo da Kaja, amica di Teo che ci ospiterá una notte, per poi dirigerci in centro. I resti (50 metri a dir tanto) di mura romane sono aggrediti da una serie di giovani sloveni aspiranti scalatori. Peccato sia un muro di due metri, è Un po’ come preparare la maratona facendo un giro di piazza maggiore.
Giriamo sul lungo fiume e saliamo sulla collina del castello per vedere la cittá dall’alto, non sembra granchè, ma vedremo.
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La ribba odia la cittá col maggior numero di fontane spente d’europa: sembra fatto apposta per lasciarlo senz’acqua; quindi si fa una birra.
Teo invece rivela ciò che fará durante tutto il viaggio: il time lapse (??). Sostanzialmente una serie di scatti ad intervalli regolari (sempre troppo brevi) in direzione di piazze o strade affollate. Vedremo se ne sará valsa la pena.
Camera scoreggia.
Andiamo poi sulla cima di un grattacielo per avere un’altra prospettiva sulla città, a quanto pare si tratta del primo grattacielo dei Balcani e uno dei primi edifici in cemento armato in città. In cima c’è un locale invaso da ragazzetti infighettati, tipo kinki a 100m da terra. Scopriremo in seguito che pochi giorni prima un uomo si è lanciato da lassù. Comprensibile.
La figura giornaliera da italiani la facciamo in un ristorante dove Kaja ci aveva consigliato di andare a prendere un dolce tipico entro le 21 per pagare la metà: ci sediamo e ordiniamo 2 dolci in 3. Ne è valsa la pena, dolci ancora caldi con ricotta, mele e semi di papavero.

Infine torniamo nel cuore della cittá, e andiamo nella parte certamente più viva e memorabile: la zona di mete (metelkova), un ex campo militare occupato (tipo christiania a Copenhagen) che esprime in tutto, dall’architettura all’arredamento, dai liquori alle persone, la sua libera creativitá. Incontriamo altre amiche di kaja e matteo che ci guidano nel cuore culturale di lubjana, che così si riscatta a pieno. Trasmettiamo l’atmosfera a tratti sparsi: pentoloni di kebab vegano, liquori artigianali, birra a 1euro, erba a 2-3, concerti, circoli culturali e cineteche, costruzioni in legno e sculture di ogni tipo, murales e sloveni di ogni etá.
Aggrediti dalla fame, prima del rientro, ci fermiamo a consumare il burek, per essere politicaly correct diciamo che è… Tipico.

Ah, da quale cazzo di cittá è partita la folle moda delle scarpe appese ai fili per la cittá? C’entra qualcosa con Big Fish?

Morale della giornata: ogni partenza è una forma di rinascita.

Ljubljana – Belgrado. Seconda tappa.

Galleggiando dalla Slovenia alla Serbia passando per la croazia il paesaggio muta verso il livello del mare: alla geografia alpina slovena fanno seguito quella “appenninica” del nord della Croazia, tra pecore e pecorai, fino alla “bassa” serba.

Lungo l’ardua via per Belgrado,
Due tappe interrompono il cammino
per vedere monumenti comunisti
posti in impensati luoghi.
Tre dottori di gran classe e assai distinti
Ivi sostano al fine di nutrirsi
Già sommersi dal bucolico paesaggio
Tra le bestie che di lana sono ricche.

Piano piano questi conti
Giungeran fino a Costanza
Nel frattempo in mezzo ai monti
Regna solo l’ignoranza

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