Skopje

C’è una città un po’ folle, è una città tutta blu. Attraversata da un fiume, nel suo centro resta sdraiato un bel ponte da mille anni o ancora di più. Qui gli abitanti han deciso di costruire persone e metterle ferme su un palo, sono persone enormi, qualcuna a cavallo, qualcuna seduta ma tutte non possono muoversi, soltanto star ferme lassù. Oltre lo stabile ponte, che neanche il fiume può scuotere, alti palazzi seduti guardano l’acqua che corre, sono neonati e già grandi. Loro si specchiano gai di luci dai mille colori: servono assai per la folle città. Apri poi spacca e cementa, rompi poi scava ed innalza: intorno c’è un gran fermento per fare nuovi giganti da porre seduti e splendenti intorno alle immobili statue.
C’è una città dentro un secchio, con le pareti di monti ed il fondo che scorre. Volano insetti a milioni, corrono intorno alle luci della sbocciante città. Alle spalle dei vanitosi palazzi c’è un grande mago di pietra disteso sopra un bel morbido colle che veglia la folle città. Venne da un luogo lontano e da prima dei grandi giganti, venne da prima delle persone immobili e forse da prima ancora degli insetti, venne a far compagnia al ponte. Dopo un chiacchierata di chissà quanto, il mago s’appisolò ed ora solo ogni tanto apre assonnato un gran occhio e controlla le novità.
Sotto al colle del mago, lontano dal rapido fiume, c’è una zona ben stramba, tutta cinta da una tendona rossa. Qui arrivano uomini, gente di tutte le età, e vi si fermano appresso, intorno al minuto laghetto. Togli le scarpe togli i calzini, poggia le scarpe, poggia i calzini, metti i piedi dentro il laghetto e aspetta che passi il pesce assonnato. Lui poi ti lava con carezze di spruzzi: ora puoi togliere i piedi da lì, devi soltanto andar davanti alla tenda, metter la benda ed entrare.
Tenero, soffice come un cuscino, senti milioni di bacetti sui piedi: tutto è tappeto, tutto è ricolmo di tanti altri che son come ciechi. Si può sentire soltanto il morbido strato di fede ch’è sotto di sè, si può avanzare soltanto avanti con gli altri, la direzione è la stessa e pian piano si procede in silenzio.
Salendo più in alto in realtà, si vede la rivalità che sfrega da anni l’intera città. Due cime svettano infatti: l’una più vecchia e sol dritta, bianca e vicino al tendone, l’altra la sfida dalla parete del secchio, con le due braccia un po’ alzate, come incrociate a metà. Quella più antica assai grida, diverse volte ogni dì, mentre la nuova minaccia soltanto restando in silenzio.
Proprio infilata fra i monti, che son di una spazzola i denti, sta la città aggrovigliata, ma se ti spingi un po’ fuori potrai vedere anche tu quando son grandi quei denti che stanno abbracciati laggiù. Son tutti stretti l’un l’altro e piangono ghiaia biancastra. I loro piedi di roccia sono infatti mangiati, morsi e poi sbriciolati, da famelici cani d’acciaio che fan delle lacrime mucchi da portare nella lontana città.
Se vieni a vedere la folle città, non sai che ci trovi, non sai chi ci sta. Meglio salire sui monti, cercare un laghetto o la cima di un passo, fuggire da tutto: persone di pietra e tappeti, lacrime bianche ed insetti. Sali più in alto con me e guarda intorno che c’è, forse vedrai un città, è la più folle che c’è.

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